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lunedì 28 giugno 2021

MALEDETTA PRIMAVERA.


Mi guardo allo specchio attraverso il velo di vapore. Alzo una mano per passarla sopra la mia immagine sfocata, ma mi fermo a mezz’aria: se lascio le ditate sullo specchio dovrò passarlo di nuovo col vetril.

“Sei sciatta! Sai che non lo sopporto.”

Aspetto ancora qualche minuto che si asciughi, poi strappo due fogli di carta igienica e li strofino sulla specchiera.

Mi osservo. La virgola color ocra, che dal lato esterno dell’occhio destro scende lungo lo zigomo, si nota appena. In tre giorni da rossa e gonfia la pelle è passata prima al viola intenso, poi al blu e infine a questo colore che tende al giallo e che dovrebbe scomparire facilmente sotto un po’ di trucco.

“Mi dispiace, non volevo: sai che non volevo.”

Tolgo l’asciugamano che ho avvolto sui capelli e li tampono a lungo prima di cominciare a spazzolarli. Non voglio accendere il fon: Luca sta ancora dormendo.

Di solito a quest’ora è già fuori e il problema non si pone, ma è quasi un mese che non lavora. Se non cambia qualcosa non so come farà.

Come faremo. Perché ha convinto anche me a lavorare per lui e quest’autunno lascerò l’insegnamento.

“Non vorrai passare tutta la vita a fare la maestra degli handicappati. Sai quanto mettiamo via se non devo prendere un’altra dipendente? E appena il locale decolla...”

Mi allontano col viso dallo specchio per vedere il risultato del trucco. Mi pare ottimo: il livido praticamente non si vede. Non so perché lo faccio, tanto al lavoro non ci vado neanche io: le scuole sono chiuse e di casa non si esce.

Noto l’alone che il mio fiato ha lasciato sul vetro quando mi sono avvicinata per truccarmi e strappo convulsamente due foglietti di carta igienica.


Scendo in cucina, preparo la moka e metto su il caffè.

La scuola mi manca. Mi manca ora che è chiusa per questa cosa assolutamente inedita che stiamo vivendo e mi chiedo se non mi mancherà ancora di più quando l’avrò lasciata del tutto.

La verità è che il mio lavoro mi piace. Mi piace insegnare, mi piace stare in mezzo ai bambini, mi piace discutere di didattica coi colleghi, mi piace tracciare un cammino di apprendimento su misura per accompagnare i miei ‘alunni speciali’ verso obiettivi che per altri sono scontati.

Ma questo a Luca ho smesso di dirlo: si arrabbierebbe solo.

Sei un’egoista: sai quanto ho lavorato per arrivare ad avere un locale tutto mio? E ho bisogno di te, non lo capisci? Sono sacrifici che una donna può fare per la famiglia. No?”

Famiglia. È stata questa parola a farmi capitolare.

Fino ad ora, per parlare di figli è sempre mancato il momento, i soldi, la determinazione.

“Davvero hai fretta di mettere al mondo dei figli? Non lo vedi tutti i giorni come si riducono i figli di questa società di merda? A me sembra un bell’egoismo anche questo, da parte tua.”

È un pezzo che me lo sento ripetere. Io però il mese scorso ho compiuto 35 anni e penso che, magari, dopo averlo aiutato in questo suo nuovo progetto, una volta che il locale è decollato, come dice lui, questa cosa della famiglia, dei sacrifici che sono disposta a fare, potrebbe dare i suoi frutti.

Mentre sorseggio il caffè, mi accorgo dello smartphone che, silenzioso, sul tavolo della cucina sta lampeggiando. Lo afferro nel momento esatto in cui si spegne. Cinque chiamate perse da mio padre.


La primavera non è mai stata così bella, a vederla attraverso i vetri di una finestra. Sulla statale incredibilmente deserta, la campagna mi viene incontro col suo verde intenso e tenero di germogli che sembra una novità assoluta dopo un mese passato a guardare quello improbabile dell’edera finta sul balcone del vicino.

Con l’autocertificazione scarabocchiata in fretta dentro la borsa, provo la sgradevole sensazione di fare qualcosa di illegale oltre che di immorale.

Luca non era d’accordo, ma alla fine sono partita.

“E mi lasci qui da solo? Lo so che è tuo padre e che sta male. Insomma, allora se hai deciso va’. E non lamentarti poi che sono io quello che pensa solo a sé stesso: lo vedi che fai sempre quello che vuoi con me?”

Come posso dubitare del suo amore. Non potrei mai lasciarlo.

Poi ci sono i suoi occhi, le sue mani, l’odore della sua pelle.

Farei qualunque cosa. Non voglio che mi lasci. Mai. Non vivrei senza di lui.

            Nella casa dove sono cresciuta, trovo mio padre con la febbre alta e una forte tosse. È peggiorato rapidamente da quando l’ho sentito questa mattina. Chiamo il suo medico, arrabbiata che lui non lo abbia ancora fatto.

– Anche Luigi ha chiamato il medico la settimana scorsa. Gli ha mandato l’ambulanza e non è ancora tornato. – I suoi occhi si velano di lacrime al termine di un accesso di tosse.

Il telefono del medico squilla occupato. Prenoto la richiamata e gli rispondo di non fare il bambino.

Quando il dottore mi avvisa che mi manderà un’ambulanza, viene da piangere anche a me.

I paramedici indossano una tuta bianca che li copre fin sopra la testa, mascherina, guanti e visiera. Mi viene spontaneo avvicinarmi al letto di mio padre e protendermi su di lui con un irrazionale istinto di protezione. Le mie lacrime hanno scavato un solco nel make-up di questa mattina e il livido di fianco al mio occhio destro è tornato visibile. Mio padre se ne accorge e nel suo sguardo leggo una pena ancora più profonda della paura di quello che gli sta succedendo. Mi rendo conto che lui non ha mai capito, non ha mai sospettato. Neanche quella volta della costola incrinata, quando gli ho detto che il mio ‘alunno speciale’ mi ha spinto contro lo spigolo di un banco.

D’istinto afferro la borsa e provo a seguire la barella, ma un dottore mi si para davanti.

– Signora, lei deve rimanere qui. Faremo tutto il possibile ma si prepari al peggio. Le faremo sapere noi. Intanto lei non può lasciare questo domicilio. Verrà contattata dall’ULSS per definire i termini dell’isolamento fiduciario. –

Sono frastornata. – Come? –

– La quarantena signora. Non deve muoversi da quest’appartamento per nessun motivo. Ha capito bene? –

– Sì, sì certo. – Allungo la mano verso quella di mio padre ma riesco solo a fargli scivolare tra le dita il suo smartphone. – Ti chiamo, papà. –


Telefono a Luca e, tra i singhiozzi, gli racconto tutto. Vorrei essere tra le sue braccia.

Lui prova a scuotermi col suo atteggiamento pragmatico: quell’intelligenza pratica che lo ha sempre sostenuto, che lo ha portato a realizzare i suoi progetti ambiziosi e che ha sempre suscitato tanta ammirazione anche in me.

Quando metto giù mi sento peggio di prima.

Mi muovo nella casa dove sono cresciuta, come in cerca di qualcosa in cui riconoscermi.

“Te l’avevo detto che era una cazzata partire così. Doveva chiamarselo lui il dottore!”

La cucina a buon mercato è recente perché quella vecchia era diventata pericolosa, ma il divano del salotto ha i braccioli consumati e il plaid scozzese è quello in cui avvolgevo i piedi mentre preparavo la tesi.

“Che poi adesso chissà quando potrai tornare a casa. E farci non ci fai niente: smettila di pensarci.”

Il televisore è di ultima generazione perché una delle poche volte che Luca mi ha accompagnato qua, ha voluto portare papà a comprarne uno nuovo e lui gliel’ha lasciato scegliere fingendo di non preoccuparsi dei soldi.

“Ma che sia chiaro che non ti muovi finche non sei sicura: che non mi porti qui qualcosa. Tu alle conseguenze non ci pensi mai, ma io appena riaprono devo lavorare se no qui va tutto a puttane.”

La camera da letto è forse l’unico pezzo di valore di questa casa: appena sposati i miei genitori l’hanno vista in un’esposizione e, per un anno, hanno dormito su una vecchia rete con un unico tavolino di legno impiallacciato come comodino, finché non sono riusciti a comprarla.

Dalla foto sulla specchiera, mia madre mi osserva in silenzio. Io di lei quasi non ho ricordi, anche se a volte mi pare di percepirne una traccia nel timbro di una voce... in una canzone della Goggi.

Afferro la foto e la osservo: giovane, sorridente, bellissima nel suo abito di chiffon color pervinca senza spalline. Mio papà le sta accanto in doppiopetto e la guarda come una visione.

Oh, papà! Quanto saresti stato felice se solo il destino non te l’avesse portata via.

E io, sciocca, che mi lamento!

Afferro il telefono e richiamo Luca. Lui rifiuta la chiamata.

Apro whatsapp e digito: ‘amore, scusa’.

Risponde: ‘ho da fare’.


Parlare con mio padre è un dolore fisico.

Coricato su un fianco, perché solo così respira un po’ meglio, con le cannucce dell’ossigeno che gli escono dal naso, ansima ogni parola come uno sherpa sull’Himalaya, ma non demorde. Ha negli occhi l’ultimo sguardo che mi ha dato, a metà tra il colpevole e l’indignato. – Come ho fatto a non capirlo? Come puoi lasciarglielo fare? –

– Papà, non pensarci: non è niente, davvero. –

Tossisce. E vedo che alza una mano come a chiedere ancora un po’ di tempo. Qualcuno davanti a lui gli risponde che deve mettere giù. Che devono sedarlo. Devono intubarlo.

Mi ero ripromessa di non farmi vedere piangere, ma non ce la faccio. – Papà, se la mamma non fosse morta sareste stati così felici! Per sempre. –

Lui scuote appena il capo. – Non lo so. –

La mia espressione sconcertata riesce a strappargli un sorriso.

– E come faccio a saperlo? Tesoro, guardami: – Con uno sforzo volge lo sguardo attorno a sé e, senza volerlo, muove lo smartphone. Oltre il cuscino sgualcito e sudato, vedo la testiera di metallo del letto, un monitor attraversato da linee curve e sequenze di numeri, cavi che si attorcigliano alla manica del suo pigiama. – la vita, quella vera, non la puoi immaginare. – Ansima. – Però l’avrei rispettata. Anche nell’infelicità. Forse ancora di più. –

Tossisce. Il dottore gira attorno al letto e gli tende perentorio la mano perché gli consegni lo smartphone.

– Addio bambina, ti saluto la mamma. –

– Torna a casa papà. –


Me lo hanno restituito in un’urna.

Davanti all’ossario, in un cimitero deserto, guardo i mazzi di fiori appoggiati alla sua foto chiusa in una busta trasparente rigata di pioggia: è un addio strano senza l’abbraccio di un funerale.

Eppure, sembra una cosa minima rispetto a quello che sta succedendo: una di quelle a cui è facile fare l’abitudine. L’operaio del comune si ripara sotto una tettoia e il prete mormora una benedizione con l’impermeabile nero sopra i paramenti sacri.

Io non piango neanche. Mi sento sospesa in un tempo di mezzo, tra quello che è stato finora e quello che sarà, aspettando che ogni giorno mi renda un po’ più forte, per affrontare quello che fino al giorno prima non riuscivo neanche a immaginare.

Perché la vita, quella vera, non la si può immaginare.


Luca lo ha capito che da lui non torno.

Ci sono giorni in cui la sua cattiveria, la sua rabbia, mi segnano ancora la pelle come lividi difficili da coprire.

“Adesso mi lasci perché le cose vanno male. Perché mi fanno chiudere. Guarda che lo hanno capito tutti la puttana che sei.”

E giorni in cui ricordo solo le carezze, la sua voce calda, un desiderio così viscerale da spezzare il respiro.

La verità è che non non ha nessuna importanza.

Io non riesco più a vedermi se non attraverso quell’ultimo sguardo di mio padre.

Perché una gomitata nelle costole non è meno grave di un ceffone, solo perché si copre più facilmente. E sono sempre più sicura che mio padre sarebbe stato felice con mia madre. A maggior ragione credo che gli mancherei di rispetto a svenderla, la mia felicità.

E poi c’è un bambino con difficoltà di apprendimento che, in un momento così nemico dell’insegnamento, ha ancora bisogno del mio aiuto. Anche l’anno prossimo.

(Racconto premiato con menzione speciale al concorso "A-normalità - frammenti di una straordinaria quotidianità" 26/06/2021)

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