Ringrazio anticipatamente chiunque vorrà arricchire queste pagine con un commento.
Chiedo solo a ciascuno il buon senso di evitare espressioni che possano risulate offensive per qualsiasi altro visitatore.

sabato 17 marzo 2012

Ulmeta, cronaca di una notte di peccato.

L'oscurità quella notte avvolgeva tutto, celando ad occhi umani il bello e il brutto. Le acque luminose del fiume non risplendevano al sole, al pari del buio dei boschi più impenetrabili e la cima dell'alto monte che solitamente si staglia limpida nel cielo del tramonto non pareva dissimile dalle impervie gole rifugio di briganti, fiere e chissà quali stregonerie. 
Così che niente era quel che appariva, e quel che appariva aveva spesso il sapore sinistro della paura.
Il territorio di cui vengo a parlare è quello dell'alta valle del Tanaro. Terra dolce e severa che in questi anni di duro lavoro per il villano e di miseria per la sua famiglia, sa reggere sulle spalle curve tutto il peso di un maestoso maniero, delle sue torri imponenti e della funesta tirannia dei Signori di Ormea.
Al tempo dei fatti io, ancora giovinetto, vagavo tra quelle mura accudendo i cavalli della guarnigione, in cambio di un po' di zuppa calda ed un giaciglio asciutto.
Ora, a quelli di voi che si chiedono come mai, in questo secolo buio di angherie e di ignoranza, un miserabile stalliere, al servizio di un rude tiranno, arrivi poi ad apprendere l'arte nobile d'imbrattare d'inchiostro pergamene pregiate, dirò subito che in questa storia non tutto, al pari di ciò che appariva quella notte, è quello che sembra; così come io, in realtà non servivo quello stesso padrone che credeva da me esser servito.
Quella notte, ordunque l'oscurità avvolgeva tutto, celando ad occhi umani il bello ed il brutto. Tra le fredde pietre che cingevano la collina, per tutto il giorno il cozzare di spade, le urla dei soldati e lo scalpitare dei cavalli avevano risuonato attutiti dal sordo scrosciare di una pioggia fitta fitta. Da poco il marchese col suo seguito aveva lasciato il castello per recarsi come ogni sera in paese a spendere la notte in ribalderie, prepotenze e donne di malaffare.
Uscendo dalle stalle sollevai lo sguardo verso la torre dove, ad una finestra illuminata dalla fioca luce di un lume, intravidi la delicata sagoma della più bella castellana ch'ebbi, in tutta la mia vita, occasione di vedere.
Io la conoscevo bene, ormai: fanciulla dall'animo nobile e dal triste destino, prigioniera di quelle fredde pietre e di un legame da sempre privo di tenerezze.
Presi la torcia e, seguendo un rituale consueto, mi avviai sulle mura che correvano lungo il dirupo a ridosso del torrente. Quattro passi, otto passi, dieci e poi indietro. Non pioveva più, ma il vento si era fatto pungente e le acque del torrente ribollivano in lontananza come mai fino ad allora le avevo sentite. Rientrai per posare la torcia e vidi un'esile figura, avvolta in un pesante mantello scuro, uscire dalla torre e avviarsi lesta verso le sponde del rio. Altre volte avevo assistito alla stessa scena, ma quella notte era così buia... ed i suoi aliti così sinistri... Tutto sommato non credevo che l'eterea fanciulla si sarebbe dimostrata così coraggiosa ed il suo ardore così risoluto!
Sapevo che il mio posto, in quel momento, era al seguito del suo sposo, ma quella notte, non so ancora oggi il perché, decisi di seguire l'infelice marchesa.
Una luna sbiadita, che aveva cominciato a far capolino fra le pesanti nubi stendeva qua e là flebili ombre quasi impercettibili. Benché l'oscurità fosse ancora profonda la signora camminava senza esitazione sul sentiero già tante volte percorso ed in breve raggiunse il torrente.
Là, come ogni sera, oltre il rumore delle acque si levava il melodioso suono di un liuto, ed una voce maschile cantava di luoghi lontani, di distese azzurre brillanti come gemme, di vascelli leggiadri, di venti profumati, di tesori... di bellezze... di amore...
La donna ascoltava rapita e l'uomo non volgeva lo sguardo immerso nella profondità dei suoi occhi. Poi, lei allungò la mano tremante fino alle nere chiome del trovatore: era giovane, bello e di nobile aspetto. La voce dell'uomo si fece rotta dall'emozione, il suo canto sempre più lieve fino a diventare un sussurro sovrastato dal lamento del torrente. Il liuto cadde sul muschio, mentre la fanciulla faceva scivolare a terra il mantello scoprendo una cascata di riccioli biondi morbidi come la seta.
Io guardavo i due amanti stretti nel fremente abbraccio, unico testimone di un idillio dolce e trasgressivo che durava da mesi. Unico testimone... unico sì... almeno così credevo, ma i fatti mi diedero torto.
Di lì a poco il bosco si popolò di ombre, il buio s'illuminò di sguardi, il silenzio si caricò di voci e la pesante figura del marchese, circondata dai suoi fidi guerrieri, apparve minacciosa innanzi agli sfortunati amanti.
Le forze mi vennero meno, la testa cominciò a ronzare: il mio signore non aveva scampo! 
Il mio vero padrone, il nobile cavaliere al seguito del quale ero giunto nel territorio dei signori di Ormea era inerme di fronte al suo carnefice. L'uomo che mi aveva chiesto di prendere servizio come stalliere nel sinistro maniero per avvicinare la bella castellana a suo nome, era stato scoperto! Per lui ogni sera avevo portato la fiaccola accesa in rituale processione sulle mura a ridosso del torrente: per avvisarlo che il tiranno aveva lasciato il castello. Per lui ogni sera seguivo a distanza il marchese nelle sue terribili scorribande pronto a dare notizia di un prematuro rientro. Ogni sera, sì, ma quella notte, non so ancora oggi perché, avevo deciso di seguire l'infelice marchesa.
"Fate il vostro dovere!" Tuonò il tiranno tradito, rivolto ai suoi fidi, dopo una fredda occhiata alla meravigliosa sposa colta in fallo. "Fate il vostro dovere!" e si allontanò senza aggiungere altro.
Due di loro si avvicinarono agli amanti sguainando le spade, ma il mio padrone, maestro d'armi oltre che di bel canto, riuscì con abilità a disarmarli, quindi, prima che altri lo raggiungessero, afferrò l'amata e si gettò nel torrente dove le acque muggenti li inghiottirono senza pietà.
I soldati perlustrarono a lungo le rive del rio alla ricerca di due cadaveri o di un lavoro da terminare, ma invano. 
All'alba tutti rientrarono al castello: giustizia, comunque, era fatta.
Io non tornai tra quelle sciagurate mura. Per giorni vagai confuso e disperato per i boschi in preda al più cupo rimorso, alla vergogna più bruciante. Mai, fino a quel giorno, avevo tradito la fiducia del mio illuminato signore, uomo d'armi e di bel canto, astuto e colto, nobile d'animo d'aspetto e di rango che anni addietro si era preso a cuore la mia educazione e la mia istruzione oltre alla mia stessa sopravvivenza ed era stato per me un padre, un maestro, un nobile esempio.
Fino a quel giorno mai avevo tradito la sua fiducia. Fino a quella notte che a lui era stata fatale. 
Non ricordo per quanto tempo vagai per i boschi senza una meta né uno scopo, come una bestia ferita, finché un monaco mi raccolse, stremato dagli stenti e dalla fame.
In quei giorni, per ordine del marchese, un ponte di legno sorse ad unire le sponde del torrente, là dove il liuto di un trovatore ed il mantello di una castellana erano caduti sul muschio soffice e umido in una notte scura. Il ponte, per ordine del terribile tiranno fu battezzato col nefasto appellativo di 'Ponte del Peccato'.
Intanto io ritrovavo un po' di serenità nella quiete monastica dove elevavo il mio spirito con dedizione assoluta alla preghiera e allo studio, mentre il tempo provava a lenire le ferite della mia anima, ma ogni volta che passavo su quel ponte, seppur profondamente cambiato nell'abito e nello spirito, una lacerante fitta al cuore mi riportava indietro nel tempo.
Così passarono gli anni, diversi anni... Poi un giorno un pellegrino venuto da lontano, sostò nel nostro monastero. Il pellegrino portava un'importante ambasciata del nobile signore di un feudo in riva al mare. Su quella pregiata pergamena riconobbi lo stemma del mio padrone di tanti anni prima: quello stesso uomo che credevo perito tra le acque tempestose del torrente ai piedi del castello di Ormea e che, seppi allora, era riuscito a salvare la propria vita e quella della sua amata.
Sono passati tanti anni, la mia vita volge al termine, il mio passo si è fatto lento, la mia vista debole, i miei pensieri confusi, ma nulla ancora... nulla di quella notte oscura ho dimenticato.
E quel ponte, il ponte che unisce le rive del torrente là dove il liuto di un trovatore e il mantello di una castellana giacevano insieme sul muschio umido... il ponte che un tiranno senza dio fece costruire e chiamò 'Ponte del Peccato'... quel ponte oggi io lo ribattezzo 'ponte dei corni': non più a monito di una giustizia impari e funesta, ma piuttosto a scherno di colui che, ergendosi a giustiziere, si macchiò del peggiore dei crimini e credette di lavare col sangue un'onta che lo perseguiterà nei secoli.
Fino a quando il 'Ponte dei Corni' sarà lì, in quel di Ormea, ad avvallare le parole di questa mia storia.

1 commento:

  1. Questo racconto è stato premiato con menzione di merito al concorso “Le Alpi del mare tra storia e tradizione” nel 2009.

    RispondiElimina